Étiquette : Vitaliano Trevisan


  • 13 février 1989 | Vitaliano Trevisan, Il Ponte

    Éphéméride culturelle à rebours



    Es fant-mes avec qui tout contact -tait devenu impossible- dont je ne supportais plus la pr-sence.
    Ph., G.AdC






    UCCIDILI TUTTI



         […] Tutti quei libri, che ero stato così felice di poter avere, per la prima volta, tutto intorno a me, cosa che a casa non mi era mai stata possibile, ora mi toglievano l’aria, mi soffocavano. Improvvisamente, quel giorno, mi resi conto di essere circondato dal pensiero di uomini morti, sotto forma di libri scritti da uomini morti, da poco o da tanto, ma morti. Tutti. A parte quelli scritti da me, naturalmente. Ma anche dando per scontato il fatto di essere vivo, essi non mi riguardavano più da tempo e, da un certo punto di vista, cioè dal punto di vista del presente, non li avevo nemmeno scritti io. Gli altri autori, comunque, erano tutti morti. Lo verificai passando in rassegna la mia libreria, ossia la mia casa, in cerca del libro di un autore vivente, cercando di smentire quell’orribile impressione che, al contrario, mano a mano che scorrevo i titoli, o prendevo in mano un libro, diventava sempre più certezza. Tutti morti, mi dicevo, sono tutti morti. E non so come, mi capitò in mano un Bernhard, Il nipote di Wittgenstein. Il mio primo Bernhard, pensai, quello che avevo comprato alla libreria Le Scie un sabato pomeriggio. E pensando a quel pomeriggio, aprii il libro e andai subito alla prima pagina, in cerca dell’annotazione che a volte, a seconda dell’umore, aggiungo alla data di acquisto e alla firma. Lessi :

    13 febbraio 1989, alle Scie con Max.

        La libreria Le Scie, che non esisteva più da tempo, come il mio amico Max, che avevo ucciso in immagine pochi anni dopo. Come Thomas Bernhard, pensai improvvisamente, che proprio in quello stesso anno, mentre io, attirato dal nome Wittgenstein, compravo il suo primo libro, giungeva alla fine della sua esistenza. E io avevo comprato, e poi letto, il mio primo Bernhard, nello stesso anno della sua morte, pensai, e andai subito a cercare la data della morte di Thomas Bernhard, ma nell’edizione che tenevo in mano era scritta solo la data di nascita. Naturalmente solo la data di nascita, pensai, visto che, quando è stato stampato, Bernhard non era ancora morto. Allora ne presi un altro, e constatai che sí : l’anno della morte era effettivamente il 1989, ma non c’era il giorno né il mese. Inutile irritarsi per queste mancanze e inesattezze. Del resto, se i librai vendono i libri come se fossero salami, gli editori fanno i libri come se facessero insaccati. Resta da definire il ruolo degli scrittori i quali, di fatto, forniscono la materia prima per questi insaccati, e non si fanno scrupolo alcuno a usare pesticidi e steroidi e sementi geneticamente modificate e quant’altro, in modo da offrire all’industria culturale, che è essenzialmente un’industria di trasformazione, un prodotto appetibile, se non già trasformato, comunque in possesso di tutti i requisiti per essere facilmente assimilabile, confezionabile, vendibile, in una parola per farne un prodotto di serie. In un certo senso, pensai cercando tra i Bernhard, gli stessi scrittori sono ormai prodotti di serie, si pensano produttori, ma sono prodotti. Per fortuna, pensai continuando a sfogliare un Bernhard dopo l’altro, ogni tanto si incontra un coltivatore solitario. Trovai quello che cercavo in una raccolta di testi brevi, che recava in appendice una esauriente scheda bio-bibliografica. Lessi :

        Il 12 febbraio 1989 Thomas Bernhard muore nella sua abitazione di Gmunden, assistito dal fratello Peter Fabjan, per le conseguenze della cardiomegalia. La notizia della morte viene comunicata per volontà dello scrittore solo il 16 febbraio, a funerali avvenuti. Nel testamento Bernhard dispone che…

        Morto il 12 febbraio, pensai rimettendo il Bernhard al suo posto per riprendere subito l’altro Bernhard, ossia Il nipote di Wittgenstein, che di nuovo aprii alla prima pagina per rileggere la data di acquisto, che era effettivamente il 13 febbraio 1989, come io stesso avevo scritto, ossia il giorno dopo la morte di Thomas Bernhard, morte della quale nessuno poteva essere a conoscenza, e tanto meno io, che fino a quel 13 febbraio, cioè fino al giorno in cui mi recai alle Scie e acquistai Il nipote di Wittgenstein, non sapevo nemmeno dell’ esistenza in vita dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, e in effetti ad attirarmi fu il nome Wittgenstein, non certo il nome Bernhard, pensai rimettendo a posto Il nipote di Wittgenstein. Wittgenstein mi aveva tirato verso Bernhard, e mi aveva attirato a Bernhard, il giorno dopo la morte di Bernhard. Una di quelle coincidenze del cazzo che, a distanza di anni, e anzi, probabilmente proprio a causa di questa distanza negli anni, acquistano un senso. Ma improvvisamente questa idea di essere circondato dal pensiero di uomini morti, idea che veniva confortata dalla coincidenza sopra descritta e che anzi, proprio a causa di quella coincidenza, assumeva ora un tono particolare, invece di alimentare l’angoscia che mi aveva preso e che fino a quel momento, ossia fino al momento in cui avevo scoperto di aver comprato il mio primo Bernhard esattamente il giorno dopo la morte di Thomas Bernhard, aveva in effetti continuato ad aumentare, ora, proprio grazie a quella scoperta, diminuí di intensità fino a lasciarmi del tutto. Il pensiero della morte ha sempre avuto un grande potere su di me. Nella più nera disperazione è sempre nel pensiero della morte che trovo pace. Così, anche quel giorno, esso produsse su di me l’usato effetto. Mi calmai. Uomini morti, pensieri morti, parole morte, in fondo è con questo che abbiamo a che fare, quando abbiamo a che fare con la letteratura. Ma quelle frasi che insistevo a voler scrivere, e, prima ancora di arrivare sul foglio, cominciavo a morire. No, pensavo, non può essere tutto dentro di me; il fatto di essere qui dove tutto è piccolo, angusto, privo di prospettiva. Qui non ho più nessuna persona, ma dicevo, tutte le mie persone sono morte, e quelle che non sono morte le ho uccise in immagine. Trovarsi davanti qualcuno che per noi è morto, che noi stessi abbiamo ucciso. Ogni volta che andavo a trovare mia madre e le mie sorelle era così che mi sentivo ; ogni volta che incontravo per strada qualcuno che conoscevo, era così. Fantasmi con cui ogni contatto era impossibile, di cui non sopportavo più la presenza. Uccidili, mi dicevo, ora più niente ti trattiene, così toglierai il pensiero tutto in una volta. Uccidili tutti, tua madre e le tue sorelle, Pinocchio e sua moglie, il barista e il negoziante, la vicina, le commesse della libreria e tutti quelli che incontri, senza dimenticare il commissario, che forse non è commissario….


    Vitaliano Trevisan, Il Ponte, Un crollo, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2007, pp. 88-92.






    Vitaliano Trevisan- Il Ponte- Un crollo- Giulio Einaudi Editore






    TUE-LES TOUS


         Tous ces livres, que j’avais été si heureux d’avoir pour la première fois sous la main, tout autour de moi, chose qui à la maison ne m’aurait pas été possible, à présent ils m’empêchaient de respirer, ils m’étouffaient. Soudain, ce jour-là, je me rendis compte que j’étais cerné par la pensée d’hommes morts, sous la forme de livres écrits par des hommes morts, depuis peu ou depuis longtemps, mais morts. Tous. Mis à part les livres que j’avais écrits, naturellement. Mais même s’ils attestent que je suis vivant, ils ne me concernent plus depuis longtemps et, d’une certaine manière, c’est-à-dire du point de vue du présent, c’est comme si moi je ne les avais pas écrits. Les autres auteurs, quoi qu’il en soit, étaient tous morts. Je le vérifiai en passant en revue ma bibliothèque, c’est-à-dire ma maison, à la recherche du livre d’un auteur vivant, cherchant à démentir cette horrible impression qui, tout à l’inverse, au fur et à mesure que je parcourais les titres, ou que je prenais un livre en main, devenait une certitude. Tous morts, me disais-je, ils sont tous morts. Et, je ne sais comment, un Bernhard me tomba sous la main, Le Neveu de Wittgenstein. Mon premier Bernhard, pensai-je, celui que j’avais acheté à la librairie Le Scie un samedi après-midi. Et en pensant à cet après-midi-là, j’ouvris le livre et me rendis aussitôt à la première page, à la recherche de l’annotation, que parfois, selon l’humeur du moment, j’ajoute à côté de la date d’achat et de ma signature. Je lus :

    13 février 1989, aux Scie avec Max.


        La librairie Le Scie, qui n’existe plus depuis longtemps, comme mon ami Max que j’ai tué en imagination quelques années plus tard. Comme Thomas Bernhard, pensai-je soudain, qui, justement cette même année où, tandis que moi, attiré par le nom de Wittgenstein, j’achetai son premier livre, parvenait à la fin de son existence. Et moi j’ai acheté, puis lu mon premier Bernhard la même année que sa mort, pensai-je, et j’allai aussitôt chercher la date de mort de Thomas Bernhard, mais dans l’édition que j’avais entre les mains n’apparaissait que la date de naissance. Forcément, rien d’autre que la date de naissance, pensai-je, puisque, lorsque le livre a été imprimé, Bernhard n’était pas encore mort. Alors j’en pris un autre, et je constatai que oui : l’année de la mort était bien en effet 1989, mais il n’y avait ni le jour ni le mois. Inutile de s’énerver pour ces oublis et inexactitudes. Du reste, si les libraires vendent les livres comme de la cochonnaille, les éditeurs font des livres comme on fabrique des saucissons. Reste à définir le rôle des écrivains qui, de fait, fournissent la matière première pour ces saucissons, et n’ont aucun scrupule à utiliser des pesticides et des stéroïdes et des semences génétiquement modifiées et qui sait quoi encore, de manière à offrir à l’industrie culturelle, qui est pour l’essentiel une industrie de transformation, un produit appétissant, sinon préalablement transformé, ayant pourtant toutes les qualités requises pour être aisément assimilable, prêt-à-consommer, vendable, en un mot un produit de série. D’une certaine manière, pensai-je en cherchant parmi les Bernhard, les auteurs eux-mêmes sont désormais des produits de série, ils s’imaginent être des producteurs, mais ils sont des produits. Par chance, pensai-je en continuant de feuilleter un Bernhard après l’autre, de temps en temps on rencontre un cultivateur solitaire. Je trouvai ce que je cherchais dans un recueil de textes brefs, qui comportait en appendice une fiche bio-bibliographique exhaustive. Je lus :

        Le 12 février 1989 meurt Thomas Bernhard dans sa maison de Gmunden, en présence de son frère Peter Fanjan, des suites d’une hypertrophie cardiaque. Selon les volontés de l’écrivain, la nouvelle de sa mort n’a été communiquée que le 16 février, au lendemain des funérailles. Dans son testament, Bernhard établit que…

        Mort le 12 février, pensai-je en remettant le Bernhard à sa place pour reprendre tout de suite après l’autre Bernhard, à savoir Le Neveu de Wittgenstein, que j’ouvris de nouveau à la première page pour relire la date d’acquisition, qui était bien en effet celle du 13 février 1989, comme je l’avais moi-même écrit, soit le lendemain de la mort de Thomas Bernhard, mort dont personne ne pouvait avoir connaissance, et moi encore moins, du fait que jusqu’à ce 13 février, c’est-à-dire jusqu’à ce jour où je me suis rendu aux Scie et où j’ai acheté Le Neveu de Wittgenstein, j’ignorais tout de l’existence de l’écrivain autrichien Thomas Bernhard et, en effet, ce fut le nom de Wittgenstein qui m’attira et sûrement pas celui de Bernhard, pensai-je en remettant à sa place Le Neveu de Wittgenstein. Wittgenstein m’avait tiré vers Bernhard, et m’avait attiré jusqu’à Bernhard, le lendemain de la mort de Bernhard. Une de ces coïncidences de merde qui, à distance, et sans doute justement à cause de cette distance, prennent a contrario du sens. Mais brusquement cette idée d’être encerclé par la pensée d’hommes morts, idée renforcée par la coïncidence ci-dessus décrite et qui, justement à cause de cette coïncidence, prenait à présent une tonalité particulière, au lieu d’alimenter l’angoisse qui m’avait saisi et qui, jusqu’à présent, c’est-à-dire jusqu’au moment où j’ai découvert que j’avais acheté mon premier Bernhard exactement le lendemain de la mort de Thomas Bernhard, avait en effet continué d’augmenter, à présent, justement grâce à cette découverte, se mit à diminuer d’intensité jusqu’à me lâcher complètement. La pensée de la mort a toujours eu sur moi un grand pouvoir. Dans le désespoir le plus noir, c’est toujours dans la pensée de la mort que je trouve la paix. Ainsi, même ce jour-là, elle produisit sur moi l’effet habituel. Je me calmai. Les morts, les pensées mortes, les mots morts, au fond, c’est à eux que nous avons affaire, quand nous avons affaire à la littérature. Mais ces phrases que je m’obstinais à vouloir écrire, avant même d’arriver sur la feuille, je commençai à mourir. Non, pensais-je, tout ne peut être à l’intérieur de moi ; le fait d’être ici où tout est petit, étroit, sans perspective. Ici, je n’ai plus personne, me disais-je, toutes les personnes autour de moi sont mortes, et celles qui ne sont pas mortes, je les ai tuées dans mon imagination. Se trouver devant quelqu’un qui pour nous est mort, que nous avons nous-même tué. Chaque fois que j’allais chez ma mère et chez mes sœurs, c’est ce que je ressentais ; chaque fois que je rencontrais quelqu’un de ma connaissance dans la rue, il en était de même. Des fantômes avec qui tout contact était devenu impossible, dont je ne supportais plus la présence. Tue-les, me disais-je, à présent plus rien ne te retient, ainsi tu t’en ôteras la pensée d’un seul coup. Tue-les tous, ta mère et tes sœurs, Pinocchio et sa femme, le barman et le commerçant, la voisine, les employées de la librairie, et tous ceux que tu rencontres, sans oublier le commissaire, qui peut-être n’est pas commissaire. […]


    D.R. Traduction inédite d’Angèle Paoli





    ■ Vitaliano Trevisan
    sur Terres de femmes

    I quindicimila passi (note de lecture + extrait)


    ■ Voir aussi ▼

    → (sur Terres de femmes)
    12 février 1989 | Mort de Thomas Bernhard
    → (sur Vertigine)
    La grammatica del destino nel memoriale di Trevisan di Emanuele Trevi




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  • Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi

    Vitaliano Trevisan, Les Quinze mille pas,
    éditions Verdier, Collection Terra d’altri, 2006.
    Prix Campiello France 2008.



    DANS LE LABYRINTHE BOSCHIÉRIEN


        Lequel d’entre nous n’a jamais joué, enfant, à compter les pas qui séparaient la maison de l’école et l’école de la maison ou, à l’autre bout de la rue, la maison et l’école de la boutique de la marchande de bonbons ? Lequel d’entre nous n’a pas, comme Thomas Boschiero, voix narrative essentielle des Quinze mille pas, fait et défait, refait cent fois, mille fois sa valise en se demandant s’il parviendrait jamais à composer la « valise idéale », celle qui lui éviterait de renoncer à partir ? Lequel d’entre nous ne s’est pas surpris à pester encore et encore contre les « terres gastes » qui déparent les abords des villes et les no man’s land industriels qui les envahissent comme pour mieux les défigurer ? Lequel d’entre nous n’a pas songé un jour aux modalités de sa disparition et jusqu’à celles de son suicide ? Telles sont les questions obsédantes qui harcèlent en boucle le narrateur Boschiero, l’entraînant sans cesse davantage dans une spirale qui l’ « encarcère » et que rien, en apparence, ne peut arrêter.

        Pour ma part, toutes ces élucubrations, névrotiques à n’en pas douter, ne sont pas pour me surprendre. Elles sont miennes et m’habitent occasionnellement. Sournoisement tapies sous les méandres de mon imaginaire, elles se déclarent un beau jour, et se répandent, de plus en plus délirantes, jusqu’à rendre invivable le quotidien. De sorte que les interrogations multiples auxquelles Thomas Boschiero soumet ici son moi tourmenté, je les reconnais comme faisant aussi partie intégrante de ma personnalité. Et je dois dire que les voir se dérouler sous la plume de Trevisan, c’est absolument jubilatoire. Ainsi, l’épisode de la fameuse valise a déclenché en moi un fou rire inextinguible. J’ai ri des plus exaspérantes mésaventures boschiériennes, ri des infortunes mentales du narrateur, sans cesse assailli par d’insolubles contradictions. Elles m’emplissent d’une hilarité sans pareille. Elles devraient pourtant m’arracher des larmes, tant le récit, proche dans son inspiration grinçante des récits de Thomas Bernhard (je pense notamment à Extinction), penche du côté du tragique de l’existence. De la non-existence. De la dévorante et beckettienne vacuité humaine. De l’insoutenable solitude. Thomas se bat/débat, avec/contre le « vide parfait », intolérable de sa vie ; avec/contre lui-même et son moi divisé, avec/contre son frère évaporé dans la nature au lendemain de la disparition de leur sœur, déclarée morte au bout de dix années d’infructueuses supputations et recherches ; avec/contre son quotidien pesant, ses comptes à tenir, ses biens et propriétés à faire semblant de gérer ; avec/contre les hideurs de la merdique ville de Vicence (Vénétie), dont l’architecture palladienne est anéantie sous une diarrhée de boutiques de vêtements et « une hystérie de la chaussure typique de notre époque ». Avec/contre son essai sur le suicide. « Pourquoi ne pas limiter mon essai sur le suicide dans la province de Vicence à un essai sur le suicide par pendaison dans la province de Vicence ? ».

        Heureusement pour ce pauvre acariâtre de Thomas, le notaire Strazzabosco veille. « Dans la répugnante étude de la piazza Castello » à Vicence, à quinze mille pas de la maison de Thomas. Strazzabosco ! je n’ai pas encore mis la main sur ce vocable « Strazza  ». Maléfique ! En tout cas, maléfique ou pas, le notaire Strazzabosco prospère : il propose, jongle, place, déplace, vend et achète. Gère les propriétés laissées en l’état par le frère disparu, la sœur morte. Quel lien y a-t-il entre les deux événements ? Entre la disparition totale, irréversible de la sœur et celle, provisoire peut-être, du frère, que la supposée liaison de sa sœur avec un médecin de la ville a rendu fou de jalousie. Jusqu’à en faire un meurtrier ? Thomas passe et repasse toutes ces questions dans sa tête, mais le patrimoine familial l’encombre et il vit la disparition de son frère comme une volonté de le ligoter dans sa minable ville de Vicence, de l’assigner à demeure et de l’empêcher d’en partir. Seuls l’intéressent vraiment les livres laissés en pile sur la table de travail du frère, ses notes sur le peintre Francis Bacon, le manuscrit inachevé de La Maison dans le parc dans la maison. Mais ce qui l’obsède davantage encore, c’est le chef-d’œuvre du frère, le labyrinthe-refuge de la tour de la maison de la strada Commenda, miroir de son propre labyrinthe intérieur.

        Perdu dans les obsessions et délires de sa forêt mentale (le « bosco » n’apparait-il pas dans le nom de trois personnages : Boschiero, Strazzabosco, Magnabosca ?), Thomas Boschiero se réfugie dans le compte-rendu précis et rigoureux, méthodique, de sa folie. Jusqu’au coup de théâtre final qui boucle le récit et le renvoie au prologue initial.

        Outre la construction circulaire (« cyclopédique ») très aboutie des Quinze mille pas, ce qui surprend dans cet admirable récit, c’est l’enchevêtrement des voix, leur incessante superposition, leur entrelacement travaillé. De ces incises à emboitements multiples qui ponctuent le déroulement de la pensée ― dit-il, pensais-je, pensa-t-il… ― chaque assertion, reprise, renforcée par la pensée concomitante de l’autre, suscite le trouble du lecteur. Qui en vient à se demander qui parle vraiment, du narrateur ou de son frère. Parfois même d’un troisième personnage. Peut-être est-ce une même et unique voix, scindée en deux, en trois, sous l’effet d’une schizophrénie envahissante ? Peut-être est-ce la même fêlure obsédante qui se dit et se déroule spirale après spirale, d’une voix l’autre ? Peut-être n’y a-t-il en définitive qu’un seul et même personnage, supplanté sans cesse par les différents masques qui en déforment le visage ?

        Vitaliano Trevisan excelle dans la mise en abîme des actions et des hommes. De même que « les actions littéraires d’un seul tenant nous échappent », de même « les hommes d’un seul tenant font défaut ». Admirablement traduit par Jean-Luc Defromont, Les Quinze mille pasprix Campiello France 2008 ― a tout du thriller existentiel : personnages borderline pour un récit grinçant.


    Angèle Paoli
    D.R. Texte angèlepaoli






    Image, G.AdC
    Vitalino_trevisan____jappuyai_sur_2 EXTRAIT : JE VEUX MOURIR MOI AUSSI

        Je marchais de mon pas cadencé habituel. Ni rapide ni lent. Sans lourdeur, léger. Je comptais mentalement tout en pensant, concentré pour ne pas perdre le rythme ; attentif à maintenir en équilibre, sur le fil d’un temps à quatre temps, les trois variables ― penser marcher compter ― de façon à en faire des constantes. Maintenant j’y suis, pensais-je, maintenant je suis arrivé. Il ne reste que quelques pas, pensais-je, puis je serai à la fin du Corso. Je n’avais pas du tout envie d’aller chez le notaire Strazzabosco, pensais-je, alors si je dois vraiment y aller, autant que ce soit aujourd’hui, que ce soit le plus tôt possible. Tout de suite, tout de suite, maintenant, maintenant, immédiatement et qu’on en finisse. Vendre le plus tôt possible au meilleur prix possible, voilà ce que je vais lui dire, pensais-je. Je liquide tout, mon cher Strazzabosco, parce que moi je ne veux plus en entendre parler. Je ne veux plus entendre parler de maisons, ni de terrains, et encore moins de participations financières, lui dirai-je, pensais-je. Je ne laisserai rien derrière moi. Je n’ai pas d’amis, pensais-je, j’en avais, mais maintenant je n’en ai pas. Des femmes, je n’en ai jamais eu ; la famille, c’est comme si je n’en avais pas. Personne ne m’appelle jamais au téléphone, sauf pour les questions d’argent ou pour me casser les couilles. Seul le type du gaz me rend visite, le facteur avec les relevés de comptes bancaires, et les témoins de Jéhovah, ces derniers représentant les seuls êtres humains auxquels j’adresse la parole après parfois des semaines de silence presque parfait. Vous le savez qu’on mourra tous ? me disent-ils; vous le savez que le monde finira ?, et que quand il finira, le monde, il n’y aura de pitié pour personne ? Je le sais, dis-je, c’est une évidence: le monde finira, un beau jour les hommes, finalement, finiront et s’éteindront. La race humaine est destinée à disparaître, dis-je, ça ne fait pas un pli. Mais vous, vous pourriez vous sauver, disent-ils. Mais moi, je ne veux pas du tout me sauver, dis-je, moi je veux finir, je désire m’éteindre. Du reste, j’ajoute, je n’ai pas tellement le choix : que je le désire ou ne le désire pas, somme toute, ça ne fait aucune différence. L’humanité a choisi la voie de la destruction, disent-ils, elle s’est éloignée de Dieu et chute dans l’abîme. Oui, dis-je, oui, elle chute dans l’abîme, la tête la première dans le gouffre, avec la science en guise de lest. Nous sommes tous en train de chuter à une vitesse telle que nous ne nous rendons même pas compte que nous chutons. Mais vous, vous pourriez vous sauver, disent-ils, tenez, regardez, prenez ces opuscules, regardez, lisez et ainsi de suite. Non, dis-je, je n’en veux pas de vos opuscules. Et puis moi, dis-je, je ne veux pas du tout me sauver. Je n’ai aucune intention de me sauver, dis-je aux témoins de Jéhovah ; je veux mourir moi aussi. Je veux finir moi aussi comme tous les autres. Je fais partie moi aussi de l’humanité, dis-je, et donc il est tout à fait juste que je finisse moi aussi en même temps que le reste de l’humanité. À ce stade, d’habitude, les bons témoins, qui voyagent toujours deux par deux, peut-être pour se donner du courage, peut-être parce que comme ça, ils peuvent se contrôler l’un l’autre, sont désorientés et commencent à s’embrouiller. Ils se mettent à bredouiller quelque chose du style : mais vous ne pouvez pas vous réjouir de la fin du monde. Vous ne pouvez pas croire à la fin du monde, désormais prochaine, et ne pas vous en inquiéter. Non seulement je ne m’en inquiète pas, dis-je, mais au contraire, l’idée qu’un jour ou l’autre tout prendra fin me tranquillise. Hourra, je pense, un jour finalement la mémoire ne sera plus, et je m’endors tranquille. J’étais parvenu à la fin du Corso. Je tournai à droite. Au bout de quelques pas (neuf), j’entrai dans la cour du palazzo Bonin Longare, poursuivis tout droit (vingt et un autres pas en tout) et m’arrêtai devant l’entrée de l’étude Strazzabosco; je tirai de ma poche le carnet, effectuai un petit calcul mental et notai : maison étude Strazzabosco 15 000 pas.
         J’appuyai sur la sonnette.


    Vitaliano Trevisan, Les Quinze mille pas, Éditions Verdier, Collection « Terra d’altri » dirigée par Martin Rueff, 2006, pp.138-139-140. Traduit de l’italien par Jean-Luc Defromont.



    VOGLIO MORIRE ANCH’IO


        Camminavo con il mio solito passo cadenzato. Né veloce né lento. Non pesante, leggero. Contavo mentalmente mentre pensavo, concentrato per non perdere il ritmo; attento a tenere in equilibrio, sul filo di un tempo di quattro quarti, le tre variabili ― pensiero passo conto ― in modo da renderle costanti. Ormai ci sono, pensavo, ormai sono arrivato. Mancano ancora pochi passi, pensavo, poi sarò alla fine del Corso. Di andare dal notaio Strazzabosco non ho affatto voglia, pensavo, e allora, se proprio devo andarci, allora che sia oggi, che sia il più presto possibile. Subito, subito, adesso, adesso, mi dicevo, e subito, adesso, immediatamente e che sia finita. Vendere il piú presto possibile al migliore prezzo possibile, questo gli dirò, pensavo. Liquido tutto, caro Strazzabosco, dirò al notaio Strazzabosco, perché io non ne voglio piú sapere. Di case non voglio piú saper nulla, di terreni neanche, di partecipazioni finanziarie men che meno, gli dirò, pensavo. Non mi lascierò dietro niente di niente. Amici non ne ho, pensavo, ne avevo, ma ora non ne ho. Donne non ne ho mai avute ; parenti è come se non ne avessi. Al telefono non mi chiama mai nessuno, se non per questioni di denaro o per spaccarmi il cazzo. A farmi visita viene solo l’uomo del gas, il postino con gli estratti conti e i testimoni di Geova, questi ultimi, in pratica, gli unici esseri umani ai quali io rivolga la parola a volte dopo settimane di silenzio quasi perfetto. Lo sa che moriremo tutti ?, mi dicono; lo sa che il mondo finirà ?, e che quando finirà il mondo non ci sarà pietà per nessuno ? Lo so, dico, la cosa è evidente : il mondo finirà, gli uomini, un bel giorno, finalmente, finiranno, si estingueranno. La razza umana è destinata a sparire, dico, su questo non c’è da discutere. Ma lei potrebbe salvarsi, dicono. Ma io non voglio affatto salvarmi, dico, io voglio finire, desidero estinguermi. Del resto, aggiungo, non c’è mica tanta scelta : che io lo desideri o non lo desideri, tutto sommato, non fa alcuna differenza. L’umanità ha scelto la strada della destruzione, dicono, si è allontanata da Dio e precipita nell’abisso. Sí, dico, si, precipita nell’abisso, a capofitto nel burrone, la scienza come zavorra. Stiamo precipitando a una velocità tale che non ci rendiamo neanche conto di precipitare. Ma lei potrebbe salvarsi, dicono, ecco, guardi, prenda questi opuscoli, guardi, legga e via cosí. No, dico, i vostri opuscoli non li voglio. Non li leggerei, ecco, tanto vale che li buttiate via, non li voglio i vostri opuscoli. Poi, dico, io non voglio affatto salvarmi. Di salvarmi, dico ai testimoni di Geova, non ho nessuna intenzione ; voglio morire anch’io. Voglio finire anch’io come tutti gli altri. Faccio parte anch’io dell’umanità, dico, dunque è piú che giusto che anch’io finisca insieme al resto dell’umanità. A questo punto, di solito, i buoni testimoni, che viaggiano sempre a due, forse per farsi coraggio, forse perché cosí si possono controllare a vicenda, sono presi dal disorientamento e cominciano a ingarbugliarsi. Cominciano a farfugliare qualcosa tipo : ma lei non può essere felice della fine del mondo. Lei non può credere alla fine del mondo, ormai prossima, e non preoccuparsi. Non solo non mi preoccupo, dico, anzi, l’idea che un giorno o l’altro tutto avrà fine mi tranquillizza. Evviva, penso, un giorno finalmente non ci sarà piú la memoria, e mi addormento tranquilla. Ero alla fine del Corso. Girai a destra. Fatti pochi passi (nove), entrai nel cortile di palazzo Bonin Longare e proseguii diritto per un totale di altri ventuno passi e mi fermai davanti all’ingresso dello studio Strazzabosco. Estrassi dalla tasca il taccuino, feci una piccola somma a mente e annotai : casa studio Strazzabosco 15 000 passi.
       &nbsp Suonai il campanello.


    Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi, Giulio Einaudi editore, 2002 ; Einaudi Stile libero, 2007, pp. 140-141-142.





    ■ Vitaliano Trevisan
    sur Terres de femmes

    13 février 1989 | Vitaliano Trevisan, Il Ponte



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